Il titolo di questo blog è Le Scarpe Comode – con aggiunta del motto: Ne bastano un paio per arrivare.
A questo punto la domanda sorge spontanea, citando Antonio Lubrano: per arrivare dove?
Un’ottima, impegnativa domanda. Non è Amleto, non è la Guida Galattica per Autostoppisti, eppure in questa domanda c’è qualcosa di fondamentale, un tema esistenziale che se ne sta lì pronto in agguato. Molte femminucce se lo stanno già chiedendo, in forma individuale e collettiva: dove vogliamo arrivare? Che cosa c’è da fare e con quali obiettivi dobbiamo / vogliamo darci da fare, per vivere un po’ meglio, in questo tempo e in questo luogo? Servono dei role models? Vecchi o nuovi? Sono tutti chiusi i conti con il passato?
Credo che quasi tuttə si siano posti la domanda “per arrivare dove?” almeno una volta nella vita, anche solo in privato, dal punto di vista personale; magari declinata in forme isotopiche o allotrope, nelle varianti “dove sto andando?” oppure “che strada voglio prendere?”
Spesso accade che ci si senta domandare da terzi: “Sì, ma… voi donne dove volete arrivare?” Qualcuno lo domanda sul lavoro, ad esempio. A me è successo e più di una volta.
In passato rimanevo ferita da una domanda del genere, perché mi sembrava quasi che la mia identità individuale e professionale venisse ignorata, sorpassata da un’identità di genere di cui certamente faccio parte, almeno a livello di fenotipo, e che però non mi esaurisce del tutto, ovviamente (io tutta intera sono ben più roba di una sola delle mie parti identitarie, presa singolarmente).
Voi donne dove volete arrivare?
In tutta onestà, avrei preferito essere interrogata in prima persona, perché di me stessa posso anche rispondere, ma del 50% della popolazione mondiale direi proprio di no.
Poi la frase mi suonava anche un po’ sardonica, francamente. Come quando si guarda qualcuno dall’alto (del privilegio) al basso (della sua posizione sociale) e lo si sbeffeggia con simpatia, dove credi di arrivare con quelle gambette corte che ti ritrovi?
Come a dire, statevene lì al vostro posto, un posto che la società intera nella storia dei secoli vi ha assegnato (indovina quale? Il focolare vicino ai pupi; oppure alla destra del padre; o del marito; oppure non lo so, non sono specialista in attese sociali, almeno non tanto quanto in disattese).
Oggi, però, vorrei provare a leggere quell’antipatica e scomoda domanda con un tono tutto diverso, perché forse alla risposta vale la pena di pensarci seriamente: dove vogliamo arrivare? Chiediamocelo, noi.
ALERT: Il noi è declinabile in mille maniere, ognunə si metta nei raggruppamenti che lə fanno sentire più a proprio agio come senso di appartenenza.
Le donne sono tutte diverse le une dalle altre, così come lo sono gli uomini: gli esseri umani lo sono, unici e irripetibili. Sono sicura che la pluralità di voci sarà una ricchezza e non un ostacolo alla coralità armonica di questo sito; tra centomila punti che formano una sagoma e altri centomila che ne formano una in apparenza tutta diversa si trova sempre almeno un punto in comune, il punto d’incontro; è un fatto statistico.
Il mio noi è una community di persone in gamba, uomini e donne, impegnatə politicamente, che si infilano un paio di scarpe comode e iniziano a camminare di buona lena in direzione di un Eldorado preciso: una società migliore.
Credo che ognunə di noi sia come una particella che si sposta tra diversi multiversi di noi, c’è il noi-famiglia, un noi al lavoro, un noi femminucce, un noi per ognuno dei gruppi ricreativi di cui si fa parte (amici, palestra, circolo del macramè). Nella contemporaneità liquida e iperdigitale chiamano “i noi” communities. L’importante, a mio giudizio, non è tanto scegliere un noi solo, più o meno comodo, da difendere con le unghie e con i denti, quanto dar peso, valore e voce ad ognuno dei nostri molteplici noi, tenendo a bada il naturale potenziale astio nei confronti di ogni rispettivo loro.
Una vita di scrittura mi ha insegnato a diffidare delle parole. Quelle che sembrano le più limpide sono spesso le più traditrici. Una delle false amiche è proprio “identità”. Noi tutti crediamo di sapere che cosa voglia dire questa parola, e continuiamo a prestarle fede anche quando, insidiosamente, si mette a significare il contrario.
Amin Maalouf, Identità assassine. La violenza e il bisogno di appartenenza / La mia identità, le mie appartenenze.
Ecco allora svelato il mistero del motto di questo sito, che resta un po’ sospeso grammaticalmente parlando, amputato del complemento oggetto. Ne bastano un paio per arrivare è dunque una speranza e un augurio per tutte e tutti, l’augurio di trovare la forza di indossare quel paio di scarpe, le scarpe migliori, e di iniziare a camminare. Forse basta già questo per arrivare. Arrivare dove? È una domanda aperta, una domanda per tuttə (noi): dove vogliamo arrivare?
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